martedì 12 febbraio 2008

Chiesta la pena capitale per sei detenuti a Guantanamo

La notizia è stata pubblicata ieri e riguarda l'annuncio da parte del Pentagono, dell'incriminazione di sei prigionieri islamici detenuti nella prigione di Guantanamo, per l'attentato dell'11 settembre 2001. La richiesta dei procuratori militari è stata la pena capitale.
I sei presunti terroristi avrebbero confessato di avere preparato l'attentato ed in particolare di avere predisposto il progetto d'attacco e di avere preso parte a tutte le fasi successive, fino all'attuazione dell'attentato, nel quale persero la vita quasi 3000 persone.
Potremmo già disquisire sul fatto che solo poche settimane fa, si è festeggiato giustamente per la moratoria ONU sulla pena di morte, mentre nessuna parola di ferma condanna è stata espressa per la richiesta di pena capitale in questo caso.Ma più che su questo aspetto, mi soffermerei su un altro in particolare: la confessione dei detenuti. Nessun riferimento mi pare di avere potuto leggere o sentire, ai metodi utilizzati per estorcere le confessioni.

Perchè non è certamente indifferente, come invece si lascia supporre, il fatto che una confessione venga rilasciata volontariamente, dopo che l'imputato si senta incastrato o invece, come in questo caso, a seguito di atroci torture.
Amnesty International racconta che cinque dei sei uomini incriminati sono stati vittime di sparizione forzata, avendo trascorso piu' di tre anni in centri di detenzione segreti della Cia, situati in luoghi sconosciuti, prima di essere trasferiti a Guantánamo nel settembre 2006. Cosa possa essere avvenuto in quei centri ancora non è dato sapere, ma è certo che i detenuti non siano stati trattati secondo criteri di tutela dei diritti umani. Inoltre la stessa Cia ha confermato che almeno uno dei sei, e' stato sottoposto alla tecnica waterboarding, o semiannegamento. Altri di loro sono stati tenuti incappucciati, nudi, sottoposti a umiliazioni sessuali, alla deprivazione sensoriale, a temperature estreme, a musica assordante e a rumore bianco.
Si potrebbe pensare - e sono certo che in molti faranno questa riflessione - che non deve avere troppa importanza il trattamento riservato ai sei imputati, visto che questi avrebbero ucciso con il loro attentato, 2973 persone innocenti. Non importa perchè - è certamente il pensiero di molti - se questo è servito per arrivare alla confessione e perciò alla verità sull'attentato ed infine alla condanna degli attentatori, ben vengano anche metodi "poco ortodossi".
A parte la mia personale ripugnanza verso le torture ed a parte il fatto che la tortura è considerata a ragione un crimine internazionale, mi chiedo chi potrebbe resistere per anni a torture fisiche e psicologiche, senza dire ciò che i torturatori vogliono sentirsi dire. In pratica, ciò che voglio dire, è che non possiamo essere certi della colpevolezza di alcuno, fintanto che il rispetto dei diritti umani non verrà affermato con certezza e fintanto che agli accusati non venga garantito un processo equo.
A questo proposito, credo sia utile tornare a leggere queste dichiarazioni, riportate dal Corriere della Sera del 14 marzo 2004.

"Noi inglesi, due anni a Guantanamo in catene imploravamo le condanne"
I tre musulmani liberati: brutalita' e pestaggi, puniti anche se cantavamo "Si cacciano i topi per non impazzire, chi non prova il suo alibi sparisce" "Per cinque mesi Iqbal costretto a restare solo con prigionieri cinesi Interrogatori di 12 ore, ammanettati al pavimento"

LA LOTTA AL TERRORISMO: "Trecento di noi sono stati ammassati in container, qualcuno sparo' per bucarlo e farci respirare, molti vennero uccisi cosi'. Quando vidi quella gente in ceppi in tuta arancione pensai a una allucinazione". "Ci dissero che eravamo stati filmati assieme a Bin Laden e al capo dei dirottatori dell' 11 settembre. Ma in quel periodo eravamo in Europa. Non ci credevano. Poi i nostri servizi segreti sono riusciti a provarlo".

"Quando mi svegliai, non avevo idea di dove fossi. Ero sdraiato sopra a dei cadaveri, respirando il fetore del sangue e dell'urina. Avevano ammassato forse 300 di noi in ciascun container, stipati cosi' stretti che le nostre ginocchia erano pressate contro il petto, quasi subito iniziammo a soffocare. Siamo sopravvissuti perche' qualcuno fece dei buchi con la mitragliatrice, anche se sparavano basso e ne sono morti ancora di piu' a causa dei proiettili. Quando uscimmo, circa 20 in ogni container erano ancora vivi".

In una casa sicura nel Sud dell'Inghilterra, il cittadino britannico Asif Iqbal racconta come e' sopravvissuto, insieme ai suoi amici Ruhal Ahmed e Shafiq Rasul (tutti e tre originari di Tipton, in Gran Bretagna), dopo un massacro compiuto in Afghanistan nell'autunno del 2001 dalle forze dell'Alleanza del Nord, spalleggiate dagli americani, l'inizio di un incubo durato 26 mesi, finito la scorsa settimana con il loro rilascio dal campo di detenzione statunitense della baia di Guantanamo.

Un giorno, forse, ci sara' qualche inchiesta su Guantanamo. Fino ad allora, alcune delle loro affermazioni - che gli Stati Uniti con tutta probabilita' smentiranno - non potranno essere confermate. Lo scorso ottobre ho trascorso quattro giorni a Guantanamo. Molto di quanto i tre uomini raccontano l'ho visto o sentito narrare da ufficiali statunitensi.

Dopo essere sopravvissuti al massacro all'interno del container, i tre sono quasi morti di fame in una prigione gestita dal signore della guerra afghano, il generale Dostum. Poi con il consenso degli ufficiali britannici, furono consegnati agli americani, prima per settimane di abusi fisici in un campo di prigionia a Kandahar, poi per oltre due anni nella desolazione di Guantanamo.

Mese dopo mese sono stati interrogati, per 12 ore alla volta o piu', dalle commissioni di sicurezza statunitensi e ripetutamente dall'Mi5. In totale, dicono, hanno sopportato ciascuno 200 "sessioni".

Le autorita' da ambo le parti dell' Atlantico sono state costrette ad accettare quello che i tre uomini hanno sostenuto per tutto questo tempo - che non sono mai stati membri delle forze talebane, di Al Qaeda o di qualsiasi altro gruppo militante. Gli americani hanno giustificato la loro prigionia sostenendo che erano "combattenti nemici", ma essi non sono mai stati armati, e non hanno combattuto.

"Formalmente ci hanno detto che stavamo tornando a casa domenica scorsa", dice Rasul. "Abbiamo avuto un ultimo incontro con l'Fbi, e hanno tentato di spingerci a firmare un pezzo di carta che diceva qualcosa del tipo che ammettevo di avere avuto legami con il terrorismo, e che se avessi mai rifatto qualcosa di simile, gli Stati Uniti avrebbero potuto arrestarmi".

Come gli altri due prigionieri liberati la settimana scorsa, Tarek Dergoul e Jamal al-Harith, i tre si sono rifiutati di farlo.

SANGUE - Sono le 3 del mattino del 13 gennaio 2002 quando Rasul, detenuto a Kandahar, viene spostato in una nuova tenda con Iqbal. La mattina seguente i loro numeri di riconoscimento furono chiamati ad alta voce e furono obbligati a starsene seduti mentre dei soldati li incatenavano stretti, li facevano sedere all'interno di una tenda e fissavano un' altra catena a un gancio nel pavimento.

Al posto delle tute blu, vennero vestiti con completi arancioni, incatenati e ammanettati e obbligati a portare dei guanti spessi, cuciti alle maniche. Poi, dice Rasul, "ci fecero sedere fuori, sulla ghiaia, mentre processavano tutti. Non ci e' stata data acqua per tutto il giorno".

Il dispositivo di controllo che ora erano costretti a indossare sarebbe diventato molto familiare per i 26 mesi successivi, il "completo tre pezzi", la cintura con una catena metallica che conduceva giu' fino ai ceppi delle gambe e a cui erano attaccate le manette.

Rasul racconta: "Dissi alla guardia che me l'avevano stretto troppo addosso, e lui rispose, sopravvivrai". In aereo vennero incatenati al pavimento senza schienali cui appoggiarsi, e persino quando chiesero di andare in bagno non furono liberati dalle catene. "Ti pisciavi tutto addosso, sulle gambe. L'unica cosa che alleviava questa deprivazione sensoriale e che mi tenne occupato nelle 22 ore di volo fu che sentivo un dolore molto forte", dice Rasul.

"Le guardie mi dicevano di dormire, ma la cintura mi stava scavando nella carne. Quando sbarcammo a Cuba, stavo sanguinando. Ho perso la sensibilita' nelle mani per i sei mesi successivi".

OBBEDIENZA - Rasul e Iqbal si trovavano sul secondo volo verso il nuovo Campo Raggi X (il primo aveva avuto luogo tre giorni prima). Quando Rasul e Iqbal atterrarono, non avevano nessuna idea di dove fossero: "Tutto quello che sapevo era che mi trovavo da qualche parte dove faceva un caldo terribile", dice Rasul.

"Una voce americana urlo': sono il sergente Tizio Caio, Marina degli Stati Uniti, state arrivando alla vostra destinazione finale. Il sole batteva senza tregua e il sudore mi colava negli occhi. Urlai per chiedere un dottore, qualcuno mi verso' dell'acqua negli occhi e poi lo sentii di nuovo: traditore, traditore".

Rasul fu l'ultimo a essere processato, e quando alla fine raggiunse la sua cella, era ormai buio. Per prima cosa venne completamente spogliato e, senza che gli venissero tolti i ceppi e le catene, ricevette un pezzo di sapone e gli fu detto di farsi una doccia, la prima dalla sua cattura.

Iqbal ricorda il momento in cui i suoi ceppi furono rimossi: "Alzo lo sguardo e vedo tutta quest'altra gente che non era ancora stata processata, in vestiti arancioni e ceppi, e penso che sto avendo un'allucinazione". Nei primi giorni trascorsi al Campo Raggi X, le condizioni di prigionia erano estreme.

Ai detenuti era proibito parlare con la persona che era nella cella a fianco e, ricorda Rasul, gli venivano somministrate minuscole porzioni di cibo: "Ti davano questo enorme piatto con un piccolissimo mucchietto di riso e pochi fagioli".

Dopo circa una settimana ai prigionieri fu permesso di parlare con i detenuti delle celle adiacenti, e poche settimane piu' tardi gli furono consegnate delle copie del Corano, un tappeto di preghiera, lenzuola e asciugamani.

Tuttavia ciascuno di loro fu testimone di attacchi brutali o ne subi' in prima persona, in modo particolare da parte della squadra anti sommossa di Guantanamo, la Extreme Reaction Force. Il suo acronimo aveva portato alla nascita di un nuovo verbo, una creazione originale dei detenuti di Guantanamo: erf-ing, "erf-are".

"Essere erf-ati, dice Rasul, significa essere sbattuti a terra da un soldato che brandisce uno scudo anti sommossa, essere inchiodati al terreno e assaliti". Iqbal e Rasul si trovavano alle estremita' opposte dello stesso blocco di celle e gli era proibito parlarsi.

Non c'era quasi niente da fare. "Il tempo passa", dice Rasul. "Fissi nel vuoto e le ore trascorrono ticchettando. Osservavi la gente e ti rendevi conto che avevano dato i numeri. Non c'era piu' niente nei loro occhi. Non parlavano".

Mentre le settimane di prigionia diventavano mesi, qualche volta vedevano degli psichiatri. La risposta era sempre la stessa: un'offerta di Prozac. Durante la mia visita a Guantanamo, lo staff medico del campo mi disse che almeno un quinto dei detenuti prendeva degli antidepressivi.


DIVIETI - Era impossibile conoscere a fondo le regole e sapere come evitare le punizioni. Solo una regola era importante, dice Rasul: "Devi obbedire a qualsiasi cosa il personale del governo statunitense ti dica di fare".

A meta' del 2002 i prigionieri vennero spostati dalle gabbie aperte con muri di rete del Campo Raggi X ai blocchi di celle metalliche prefabbricate di Camp Delta. La', la punizione standard era essere trasferiti in isolamento, nell'ala di deprivazione sensoriale. Una volta, dice Ahmed, ci fu mandato per aver scritto "Buona giornata" su una tazza di polistirene. Questo venne considerato "un danno premeditato alle proprieta' del governo americano".

In un'altra occasione fu punito per aver cantato. Le celle erano all'incirca delle dimensioni di un materasso matrimoniale, fatte di rete e metallo, esposte all'implacabile afa tropicale, senza aria condizionata. Al loro interno c'era un buco nel pavimento da utilizzare come gabinetto, un rubinetto che lasciava uscire acqua gialla e che era piazzato cosi' in basso che bisognava inginocchiarsi per usarlo, e uno stretto riparo di metallo.

A parte gli interrogatori, l'unica pausa in questa monotonia erano le docce e i 20 minuti di esercizi fisici, due o tre volte la settimana.

"Quando ci trovavamo nello stesso blocco di celle con persone che parlavano inglese, ritornavamo sulle stesse conversazioni, piu' e piu' volte", dice Ahmed. "Presto avevi esaurito tutte le possibilita', e ti ritrovavi a ripetere la stessa storia quattro o cinque volte".

Perfino questo, comunque, era meglio del blocco di punizione in isolamento, o del destino che Iqbal dovette sopportare per cinque mesi nel 2002: essere messo in un'ala in cui tutti gli altri prigionieri parlavano solo cinese.

Nel secondo semestre del 2002, gli interrogatori furono sospesi. Ma dall'inizio del 2003 gli incontri con l'Mi5, l'Fbi, la Cia e i servizi segreti militari statunitensi divennero sempre piu' frequenti.

Rasul dice: "Iniziarono a chiamarci e richiamarci, ci mostravano delle foto e ci dicevano: questo tizio dice che hai fatto questo, questo dice che hai fatto quest'altro. Quello che volevano dire era che altri detenuti stavano imbastendo delle storie che pensavano potessero aiutarli a uscire dal campo".

IL VIDEO - Gli addetti agli interrogatori utilizzavano anche lo schema del buon poliziotto e del cattivo poliziotto. "Faceva paura, anche se sapevo che cosa stavano facendo". Meno divertenti erano le condizioni in cui gli interrogatori venivano condotti.

Durante le loro "interviste", i detenuti indossavano il completo tre pezzi ed erano ammanettati al pavimento. L'estate scorsa la situazione dei tre di Tipton prese improvvisamente una brutta piega.

Gli americani avevano un video di un incontro avvenuto nell'agosto 2000 tra Osama Bin Laden e Mohamed Atta, il capo dei dirottatori dell'11 settembre. Dietro Bin Laden c'erano tre uomini, e nel maggio 2003 qualcuno sostenne che erano Iqbal, Rasul e Ahmed. Alla fine, dice Rasul, uno dei capi addetti agli interrogatori arrivo' da Washington e gli mostro' il video.

Dichiaro' con fermezza che l'uomo nel video non gli assomigliava, ne' a lui ne' ai suoi amici, e che nessuno di loro aveva mai avuto la barba. Nell'agosto 2000, quando il video era stato girato, lui stava lavorando per una filiale della catena di negozi di elettronica Curry's, ed era iscritto all'Universita' dell'Inghilterra centrale.

Un fatto, suggeri', che si poteva facilmente controllare. Invece "mi dissero che potevo aver trovato qualcuno che lavorava con me da Curry's che poteva aver falsificato i dati sul mio impiego. Arrivai al punto di non poterne semplicemente piu'. Fate quel che dovete fare, gli dissi. Me ne ero rimasto seduto la', in isolamento, per tre mesi, percio' dissi si', sono io. Andate avanti e processatemi".

Gli altri due fecero una confessione analoga.
Lo scorso settembre, fu l'Mi5 che per una volta li aiuto', quando i suoi funzionari arrivarono al campo con le prove che dimostravano che i tre non potevano trovarsi in Afghanistan nel momento relativo alle accuse.

Rasul dice: "Potevamo provare il nostro alibi. Ma che cosa succedera' agli altri, in particolare quelli che vengono da Paesi in cui dati simili potrebbero non essere disponibili?".

Per coloro che confessano, e non riescono a sostenere i loro alibi, e' in attesa un processo da parte di una commissione militare statunitense e una possibile condanna a morte. Quelli che sono stati accusati non si trovano piu' a Camp Delta, rivelano i tre uomini. Sono stati spostati in un nuovo centro di massima sicurezza, al di fuori del recinto principale, Camp Echo (Campo Eco).

Li', dicono i tre, ci sono anche i britannici Feroz Abbasi e Moazzem Begg, e l'australiano David Hicks.
Un dettaglio della vita di Hicks all'interno della baia di Guantanamo rivela i mezzi disperati escogitati dai prigionieri nel tentativo di mantenere la propria sanita' mentale.

Tiene occupata la propria mente cacciando e uccidendo topi. Piu' di un anno fa, raccontano i tre uomini, Hicks ha rinunciato all'Islam e si e' rasato la barba. Non risponde piu' al richiamo per la preghiera.

David Rose

Note:
Fonte: Corriere della sera, domenica 14 marzo 2004
(c) The Observer - Traduzione di Gabriela Jacomella


0 commenti:

Posta un commento

Articoli correlati

  © Blogger templates The Professional Template by Ourblogtemplates.com 2008

Back to TOP